di Enrico Fasano
Una Roma troppo leziosa si fa travolgere da uno strepitoso Cavani. Ora sono 16 in campionato.
Ventisettesimo del secondo tempo: Osvaldo, appena entrato, accorcia le distanze. E’ 3-1. La mente dei tifosi, già proiettata al non stonare nell’ “OOOOOI VITA”, torna ai fantasmi del passato: Totò Aronica (mandato inesilio, più dagli stessi tifosi che dalla società, nel terreno natìo), la cresta di El Sharaawy, l’incubo Konè. Si leva, timido e tacito (a Napoli si parla con la mente, la Scaramanzia è un dictat), un unico pensiero: “Ma vuoi vedere che…”
Invece no, stavolta no. Nessuna paura di vincere, nessun retropassaggio sconsiderato, persino l’acerrima nemica Sorte, mittente della spedizione bolognese pre-Natalizia, ha dovuto arrendersi. Stavolta c’è solo il Matador. E nulla più.
E’ il padrone incontrastato di un match iniziato e finito nel suo segno, nonostante le “comparse” di Osvaldo, per il gol dell’illusione, e di Maggio, per quello del definitivo poker. Piovono, come da tradizione napoletana, i più pittoreschi soprannomi: si svaria dal disumano (“Alieno”, “Mostro”) al religioso (“Messia”, “Atleta di Dio”). E quindi ti aspetti che lui si riempia d’orgoglio, che essere paragonato da alcuni eretici addirittura all’Innominabile Diego gli faccia montare, almeno un pochino, la testa. Poi lo vedi guardare la panchina quasi con preoccupazione al minuto 86, il momento dell’ingresso in campo di Lorenzo Insigne: “Non sia mai esco io. Ma no, chissenefrega della standing ovation. Magari ne faccio un altro”. E corre, corre ancora perché ha fame di gol.
Ci si chiede spesso da cosa si riconosca un campione, come si distingua un normale top player da quello che ha “quel qualcosa in più”. Ecco, probabilmente non esistono parametri fissi, ma chi vede giocare Cavani, mi si creda, un’idea di base se la fa.