Peppino Pacileo aveva giusto venti anni più di me. Il che significa, visto che la matematica non è un’opinione, che quando io a 18 anni circa cominciai a frequentare il Mattino, da collaboratore avventizio della redazione sportiva, lui ne aveva 38. Un giovanotto, non c’è che dire. Eppure già allora Pacileo era considerato una fuoriclasse della macchina per scrivere. Noi ragazzi (cito, fra i compagni d’ avventura di quei tempi che mi vengono in mente, Sergio Troise, Armando Borriello, Nando Muto, Luciano Ferrante) lo guardavamo come se non fosse seduto alla sua scrivania – terzo piano, penultima stanza a destra nel corridoio semicircolare – ma piuttosto come se stesse su un piedistallo. Un guru della penna, uno scrittore colto e fine, uno che il calcio te lo faceva vivere attraverso i suoi reportage non come se fosse uno sport, ma come se fosse una parte della tua vita.
Più avanti nel tempo, il ricordo si sposta allo stadio San Paolo, nella tribuna stampa. Per far fronte ai suoi problemi di vista, che lo accompagnarono per buona parte della vita e della carriera giornalistica, guardava la partita da dietro ad un binocolo puntato sul terreno di gioco dal 1′ al 90′. Sarà stato forse per questo ‘atto dovuto’, per questo aiutino artificiale, o più probabilmente per la sua innata, superiore sensibilità di cronista, che riusciva a cogliere dello spettacolo del calcio una miriade di particolari, non solo tecnici o tattici, la cui evidenza era impedita alla maggior parte, per non dire alla totalità, dei suoi colleghi. E poi c’era il suo stile di scrittura. Uno stile unico, ineguagliabile. La penna di Peppino Pacileo rappresentava la conferma probante di un principio assoluto della scrittura: scrive bene chi scrive semplice. Ed infatti i suoi articoli si bevevano tutti d’un fiato perché era chiaro e semplice l’eloquio. Proprio per questo il suo stile era elegante. E poi sapeva creare neologismi calcistici in un modo così naturale come in precedenza mi era capitato di veder fare soltanto ad un certo Gianni Brera.
Il terzo periodo che mi piace ricordare della mia vita incrociata con quella di Pacileo riguarda gli anni ottanta, quando la sede dell’Agenzia Ansa di Napoli, nella quale ero stato nel frattempo assunto, era nel palazzo de Il Mattino, al quarto piano di Via Chiatamone. In quegli anni, gli incontri con Peppino avvenivano dunque non solo allo stadio San Paolo o in altri luoghi deputati al calcio, ma si svolgevano, più semplicemente, in ascensore, tra le scale, nel bar interno del giornale. Fu così che potei avere il privilegio di scoprire, beneficiandone per lungo tempo, il lato umano, il tratto gentile e signorile, la bontà d’animo di un collega che era tanto perbene quanto bravo nel suo lavoro. Un fuoriclasse assoluto. Un uomo che è stato per i giornalisti davvero un punto di riferimento e che, ora che non c’è più, ci mancherà maledettamente.